La vita di D’Annunzio si presenta come una vastissima congerie di dati, spesso accumulantisi all’insegna di una apparente contraddizione. Il vivere, per lui, si definì sempre in rapporto con lo scrivere; e da ciò deriva una certa inconciliabilità tra le testimonianze e i dati esterni che offrono dell’uomo una immagine parziale, narcisistica, camaleontica che quasi mai si compone in termini di una dignitosa coerenza, e il modello inimitabile, frutto di una continua trasfigurazione eroico-letteraria, che il poeta volle forniredi sé ai contemporanei. Se questa autocelebrazione è rilevante soprattutto nel D’Annunzio maturo, dalle Faville del maglio in poi, essa fin dall’inizio opera all’insegna di due direttrici che permarranno sempre costanti: la predestinazione e la ciclicità. Il che significa anzitutto scegliere di impostare in termini mitici anzichè strettamente storici la propria esistenza; e sviluppare, rispetto all’ambiente e al pubblico letterario del tempo, una fortissima volontà di affermazione.
D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da una famiglia borghese benestante, figlio di Francesco Paolo Rapagnetta D’Annunzio e di Luisa De Benedictis; il cognome Rapagnetta, effetto dell’affiliazione che il padre aveva ricevuto da uno zio benestante, sarà in seguito oggetto di derisione da partedei nemici del poeta, ma egli, per conto proprio, aveva già reagito, confidando agli amici di una sua mascita avvenuta in mare a bordo di un brigantino. Nel 1874 entra come convittore a collegio Cicognini di Prato dove rimarrà fino alla fine del liceo, 1881, ricevendovi una solida educazione classica; nel frattempo stimolata ed assistita dallo smisurato orgoglio paterno, la sua carriera di enfant prodige delle lettere era già iniziata: nel 1879, poco più che sedicenne, ha già al suo attivo un’ode A Umberto di Savoia, una collana di venti sonetti per la nonna scomparsa, In memoriam, e la raccolta di versi Primo vere. Poco tempo dopo l’uscita di questa silloge, un giornale pubblica la notizia della morte precoce del giovanissimo poeta: evidente stratagemma pubblicitario dell’autore, che serviva anche a preparare la seconda edizione, ampliata e rifatta, dell’opera. Nel frattempo il giovane autore aveva anche tentato abili contatti per via epistolare con alcune tra le firme più prestigiose dell’ambiente letterario di allora: Giosuè Carducci, Giuseppe Chiarini, Enrico Nencioni; e se con Carducci il dialogo cadde nel vuotodagli altri due ottenne pressoché subito attenzione e riconoscimento. Nell’autunno 1881 è a Roma, iscritto alla Facoltà di Lettere (non concluderà mai gli studi); ha lasciato a Firenze un amore, Elda Zucconi (la Lalla del Canto novo), che verrà presto lasciata da parte, nel vortice dell’attività giornalistica e mondana da cui il giovane Gabriele si lascia travolgere. E’ collaboratore assiduo del “Fanfulla”, “Capitan Fracassa” (nella cui redazione incontra di persona il Carducci), e soprattutto Cronaca Bizantina, il periodico fondato da Angelo Sommaruga e pubblicato dal 1881 al 1885. Ben presto, a partire dal Canto novo (1882), il Sommaruga diventa anche il suo editore. E di questa nuova Bisanzio, che realizzava nei fatti quelle che erano state le attese per la terza Roma che avrebbe dovuto uscire dal Risorgimento, D’Annunzio fu uno dei massimi protagonisti, cronista mondano, cantore e insieme vittima; questa attività di narratore di balli, feste, concerti, mondanità varie, sarà da lui esplicata in maniera particolarmente intensa negli anni tra il 1884 e il 1888, quando lavorerà, con regolare stipendio, alla Tribuna. Il tutto in un vortice di pettegolezzi, scandali, duelli, amori. Nel 1883 il suo snobismo ancora provinciale e l’attrazione che gli ambienti aristocratici esercitano sempre su di lui si erano concretati nel matrimonio con Maria Hardouin dei duchi di Gallese, sposata dopo una romantica fuga a Firenze di cui parlarono persino i giornali; ma le nuove responsabilità (gli nacque presto un figlio, Mario, cui seguirono altri due negli anni successivi, Gabriellino e Veniero) non fecero che accrescere le preoccupazioni finanziarie e apportare altri disagi, tanto da costringerlo, nei primi anni del matrimonio, a sistemare ma famiglia nella Villa del Fuoco, di proprietà paterna, in vicinanza di Pescara, e a dividere quel soggiorno con quello romano. Suoi amici in quegli anni, sono soprattutto scrittori e artisti abruzzesi: Francesco Paolo Michetti, Edoardo Scarfoglio, Costantino Barbella, Francesco paolo Tosti; e interessante, appunto, è la testimonianza di Scarfoglio circa la trasformazione avvenuta nel giovane scrittore tra i tempi dell’arrivo a Roma e i suoi primi successi nell’ambiente mondano e letterario: “… alla prima vista di quel piccolino con la testa ricciuta e gli occhi dolcemente femminili, che mi nominò e nominò sé con un’inflessione di voce anch’essa muliebre, mi scossie balzai su stranamente colpito. E l’effetto fu, in tutti quelli che lo videro, eguale … Gabriele ci parve subito un’incarnazione dell’ideale romantico del poeta: adolescente, gentile, bello, nulla gli mancava per rappresentarci alla fantasia il fanciullo sublime salutato da Chateaubriand in Victor Hugo … Nell’inverno e nella primavera dell”82 Gabriele fu per tutti noi argomento d’una predilezione e quasi d’un culto non credibile”. Ed ecco, nel giro di pochi mesi, il radicale mutamento ” … come l’inverno (1882) aprì le porte delle grandi case romane, cedette alle lusinghe delle dame. Io non dimenticherò mai lo stupore che mi ferì vedendo la prima volta Gabriele addobbato e azzimato e profumato per una festa … . Per sei mesi Gabriele passò da una festa di ballo ad un pranzo aristocratico, da una passeggiata a cavallo a una cena in compagnia di qualche cretino blasonato e impomatato, senza aprir mai un libro, senza mai fermar l’intelletto a un pensiero serio”. Con il pittore Michetti, D’Annunzio sviluppa anche un fraterno rapporto di comunanza intellettuale e di lavoro: lasciata Roma nel 1888 per poter attendere con tranquillità a opere più impegnative, si trasferisce in Abruzzo, a Francavilla, ospite nella villa-studio dell’amico che costui ha ribattezzato “Il Convento”; lì scriverà Il piacere e il testo che, pubblicato nel 1890 sulla “Tribuna” con il titolo L’invincibile, diverrà qualche anno più tardi Trionfo della morte.